lunedì 29 novembre 2010

Nessuno tocchi Wikileaks

"Chiunque venga ritenuto un Hacker, sta facendo per forza qualcosa di illegale. Questo è un brutto segnale sullo stato della nostra società, se si pensa che una persona alla ricerca della verità e delle conoscenza, viene subito considerata coinvolta in qualcosa di nefasto. Gli Hackers, nella loro ingenuità idealistica, rivelano sempre le cose che hanno scoperto, senza riguardo ai soldi, i segreti delle aziende, o le cospirazioni del governo. Noi non abbiamo nulla da nascondere, e questa è la ragione per cui siamo relativamente aperti nelle nostre faccende. [...] Ma il fatto che non siamo disposti a giocare al gioco dei segreti, ci trasforma in una minaccia tremenda agli occhi di coloro che vogliono tenere le cose importanti fuori dalla portata del pubblico. La maggior parte di noi è attratta dai sistemi che hanno la reputazione di essere inaccessibili. [...] Ormai ci sono molte persone normali che condividono i valori degli Hacker, cioè la libertà di parola, il potere dell'individuo davanti allo stato o alle corporation [...] perché la difesa dell'individuo è il vero punto importante". Parole di Eric Gordon Corley, pioniere della comunità Hacker dagli anni 80, nome in codice Emmanuel Goldstein. Quell' Emmanuel Goldstein del 1984 di Orwell "l’apostata, il traditore che tanto, tanto tempo fa (nessuno ricordava quanto) era stato una personalità fra le più insigni del Partito, addirittura quasi allo stesso livello del Grande Fratello, ma poi si era impegnato in attività controrivoluzionarie ed era stato condannato a morte. Dopodiché era evaso e misteriosamente scomparso. Il programma dei Due Minuti d’Odio cambiava ogni giorno, ma Goldstein ne era sempre l’interprete principale. Era il traditore per antonomasia". "Si mormorava anche dell’esistenza di un libro terribile, una sorta di compendio di tutte le eresie, di cui Goldstein era l’autore e che circolava in copie clandestine. Non aveva titolo. Per la gente era, semplicemente, il libro. Ma queste cose erano soltanto il frutto di dicerie indistinte: a meno che non fosse impossibile evitarlo, tanto la Confraternita che il libro erano argomenti che nessun membro ordinario del Partito avrebbe mai menzionato". L'ultimo vero Goldstein che la nostra storia ricordi è stato Osama Bin Laden, nemico della civiltà, onnipresente, introvabile. Valvola di sfogo e, al contempo, cemento dell'occidente post 9/11. Il fantasma. Il nemico. L'ossessione.

Julian Assange è introvabile dal 18 novembre, dopo il mandato d'arresto della magistratura svedese. E' australiano, ma il suo paese di origine oggi si rifiuta di dargli rifugio, e sta pensando piuttosto se avviare procedure penali nei confronti dei responsabili delle divulgazioni Wikileaks. Julian Assange ha detto che teme di morire. Nella società 'civile' americana, c'è già chi da tempo chiede la sua testa. Un blog della destra fascista americana a settembre dava il meglio di sé scrivendo: "Possiamo fare qualcosa di legale per fermare un cittadino non americano che fa filtrare questi documenti [i file segreti sulla guerra in Afghanistan, che ha pubblicato Wikileaks, ndr]? Probabilmente no. Possiamo avere un agente della CIA con un fucile da cecchino che pianta una pallottola vicino alla testa di Julian Assange in occasione della sua prossima apparizione in pubblico, come avvertimento? Ci potete scommettere che possiamo. E dovremmo farlo. Se la cosa vi pare eccessiva, la CIA può ammazzarlo e fare in modo che sembri un incidente. Sia come sia, Assange merita di morire per quello che ha fatto. E dovrebbe essere ammazzato per mandare un messaggio efficace a chi, la prossima volta si azzarda a far uscire documenti di questo tipo" (FONTE). Il db di Wikileaks ha soltanto cominciato a sgocciolare, la massiccia operazione dei cracker ha messo a dura prova il sito da ieri pomeriggio, alcuni files relativi a questioni italiane sono addirittura spariti, Assange assicura che saranno nuovamente pubblicati. Finora niente di eclatante, sembra. Ci vorranno tre mesi di tempo; Wikileaks, data la mole informativa del database, pubblicherà i documenti a blocchi. Mentre non di blocchi, ma di blocco parla il senatore Usa Joe Lieberman che chiede ad Obama l'oscuramento del sito. Nemmeno 300 documenti pubblicati su 251.000 e già sappiamo di infiltrati statunitensi nei governi tedeschi o israeliani, di piani di guerra, dei rapporti Eni-Gazprom, armi nucleari Usa in Olanda e Belgio, un tumore per Khamenei e crack informatici per Google direttamente da Pechino. Il Partito, avrebbe scritto Orwell, trema. Nessuno tocchi il nuovo Goldstein.
Luca Ciccarese



domenica 28 novembre 2010

Non giochiamo al '68

Non giochiamo al '68, ma diamo una identità nuova alla protesta. Non ripetiamo quei vecchi slogan sbiaditi, né quelle iniziative che avevano un senso e un inizio quarant' anni fa. Forse i sessantottini avevano più fantasia di noi, al tempo. Siamo giovani e intelligenti, perché ispirarsi ai dinosauri della protesta? Questa è un'altra Italia, un altro mondo con priorità e logiche inedite.  Guardiamoci negli occhi, non stiamo combattendo per una società alternativa e diversa come nel ’68, nonostante tutto questa fa ancora comodo e non abbiamo idee. Non abbiamo idee, né entusiasmi e non si parla di pace, di libertà e uguaglianza, qua non si fa la rivoluzione,  abbiamo solo molta angoscia. Il futuro ci tormenta e non c’è spazio per hippies e capelloni, siamo impauriti, disorientati e arrabbiati e per nulla vicini a quell’ideale zen-pacifista e radical.

La rabbia.  Non si direbbe, ma abbiamo molta più rabbia di quarant' anni fa. Rabbia mista al vuoto, nichilismo, niente da perdere.  Siamo più pericolosi. Chi sono? Dipende. Cosa voglio? Un futuro, perdio, l’opportunità di sapere chi sono, chi sarò, chi vorrò essere. Almeno credo. Stiamo lottando per un futuro, non per la società, non per più diritti, né per la pace, niente di tutto questo.  Sarà molto più semplice poi dimenticarci di queste nostre lotte quando magari avremo la nostra casetta con giardino, automobile, garage, moglie e figli. Idealmente non abbiamo investito niente in questa lotta, solo rabbia. Legittima, doverosa e opportuna. Perciò non scimmiottiamo il ’68, di quello probabilmente ricalchiamo soltanto la forma, l’estetica, quasi fossimo un involucro vuoto. Non illudiamoci. Il ’68 è lontano, stiamo lottando per integrarci in un sistema, non per uscirne, per un lavoro fisso, non per un welfare di ispirazione socialdemocratica, per migliorare, non per cambiare radicalmente. Può essere un demerito questo? Per chi guarda romanticamente all’ideale sessantottino probabilmente sì, tanto che la tentazione di ricalcarlo è ancora forte e quasi inconscia. Il substrato maoista di ingenua speranza che permeava il ’68 si è frantumato, ogni alternativa ideale al capitalismo si è sgretolata, non è solo colpa nostra se non abbiamo fantasia, ma possiamo  ancora averne, possiamo non arrenderci.

Non snobbiamo le nuove tecnologie e i nuovi canali comunicativi, ma utilizziamoli a nostro vantaggio, non radichiamo i nostri slogan sulle rovine del marxismo e non vestiamoci ad hoc proprio come quarant’anni fa per andare a protestare in piazza, non ha senso. Non comportiamoci da reazionari della protesta. Vestiamola di un abito nuovo, sgargiante e tecnologico, comunicativo e intelligente, inedito e colorato, dandole un senso interno prima di tutto. Appropriamoci del nostro presente fatto di comunicazione istantanea, interazione transcontinentale, social network, di interdipendenza globale e utilizziamolo per il nostro futuro. Non solo rabbia mista a nichilismo con abiti e slogan di quarant' anni fa, guardiamoci negli occhi per capire chi siamo, e diamoci un senso o almeno una direzione.  Strategie nuove, oltre e in più di sole piazze e occupazioni: il mondo è cambiato, interpretarlo è il primo passo per criticarlo e magari trasformarlo. In caso contrario ognuno continui a lottare per il suo ’68 dimenticato, ed altri solo per la propria isola felice, ma quello che resterà, in fondo alla protesta, sarà soltanto rabbia e vacuità, uno sfogo violento e isterico di ragazzi senza idee. Nient’altro che involucri. Vuoti.

Luca Ciccarese